Perché i confini permeabili generano identità multiple

.txt
4 min readDec 18, 2020
Perché i confini permeabili generano identità multiple

Il confine è una delle parole chiave dei nostri tempi. In questo articolo, Giustina condivide un’altra visione dei confini, concependoli come un’affascinante finestra verso lo sconosciuto, ed uno specchio su cui troviamo riflesse le contraddizioni di entrambi i lati.

Nonostante la sua demarcazione prevalente di chiusura e delimitazione di territori, il confine ha per me sempre assunto il significato opposto, ovvero quello di apertura, di chiave per la scoperta di altri mondi possibili. Sono cresciuta in una regione italiana confinante con la Slovenia, e segnata da una lunga ed incancellabile storia di mescolanze a livello popolare, linguistico e culturale, ma anche da forti irrigidimenti, rimozioni e chiusure.

Il mio territorio natio è uno dei punti più marginali d’Italia, una sua “appendice” orientale, lungo cui passava la cortina di ferro, e risulta in parte nostalgicamente rivolto verso il suo passato imperiale: quello asburgico. Allo stesso tempo, esso viene “immaginato” secondo una rivisitazione puramente italiana che esclude dalla sua narrativa le tante minoranze presenti sul territorio.

Quella frontiera fra Gorizia e Nova Gorica, separate nel 1947 dall’appartenenza a due opposte sfere ideologiche, rappresentava ai miei occhi di bambina una fonte di attrazione irresistibile, che assumeva le tonalità del magico. Io e la mia famiglia, quasi ogni sabato o domenica la superavamo con un lasciapassare speciale, la propusnica, concesso solo agli abitanti del luogo. Ci godevamo della buona cucina casereccia e rilassanti passeggiate nella verdissima natura, in quella che era al tempo la repubblica socialista slovena, la parte più occidentale della Jugoslavia.

Ricordo l’emozione, ogni volta, la consapevolezza di “trovarmi all’estero”, e quella strana forma di imbarazzo nel non comprendere la lingua dei nostri vicini, lo sloveno, un fatto che mi spinse molti anni più tardi a volgermi proprio a quei territori scegliendo di studiare le lingue e culture balcaniche, fra le più trascurate nelle università italiane.

La verità è che, da bambina, giunsi velocemente ad “appropriarmi” di tale confine, esso divenne parte integrante della mia identità, che fin dall’inizio si era imposta come forma di appartenenza multipla e non esclusivista. Risultava facile aggiungere tessere di immaginario supplementari al mosaico identitario della mia persona, avendo una mamma messicana ed un padre nato da una coppia mista, ovvero da un’italiana di frontiera ed un italiano levantino di Istanbul che a sua volta era figlio di un’italo-armena levantina…

In aggiunta a ciò, i miei genitori avevano vissuto per qualche anno in Brasile, dove ero stata concepita, e l’America latina esercitava su di me un richiamo insilenziabile, ancestrale, che mi portava a mettere continuamente in dubbio il mio legame con il mondo italiano in cui crescevo. E così, parallelamente a quello italo-sloveno, l’altro confine a segnare in maniera indelebile la mia infanzia fu quello statunitense-messicano, vicino al quale trascorrevo buona parte delle mie estati, in visita ai parenti “chicanos” (messicani californiani) fra San Diego e Los Angeles.

Valicare la frontiera fra San Diego e Tijuana scatenava in me delle sensazioni travolgenti, era un vero e proprio rito di iniziazione all’ “esotismo”: il contrasto fra i due paesi era talmente intenso, e, agli occhi di una bambina, il passaggio verso un universo di colore e prossimità umana inebrianti rifletteva una forma di verità ben più diretta di quella che potevo trovare negli Stati Uniti, pur idealizzati, del momento.

Passare il varco equivaleva ad immergermi in un’altra possibilità di esperire me stessa, e fu così che attraversare i confini marcò per me l’inizio di un viaggio senza sosta, divenne un’abitudine ed un’esigenza connaturate alla persona che decisi già allora di voler essere.

Molti anni dopo, da giovane studentessa di antropologia, partecipai per varie estati ad un corso accademico organizzato dal Border Crossings Network presso il paesino di Konitsa, nell’Epiro greco, a pochissimi chilometri dalla frontiera albanese. Fu lì che mi resi conto di quanto importanti fossero i confini, e soprattutto il loro attraversamento, a livello non solo umano ma anche accademico, per discipline come l’Anthropology of borders ed in generale i Border Studies.

Assieme a partecipanti provenienti da tutti i paesi del Sud-Est europeo e a pochi “occidentali” come me, imparai, spesso a fatica, ma sempre con grande entusiasmo, a condurre fieldwork di tipo etnografico nelle aree greco-albanesi, alla ricerca di ciò che di valido e originale veniva generato dalle interazioni umane in — e con — tale territorio multietnico.

In un certo senso, a livello “epistemologico”, compresi che il confine, proprio per il fatto di essere una costruzione umana artificiale, è in grado di innescare delle dinamiche uniche e preziose di resistenza a quell’unicità ed affermazione statali che dovrebbe supportare e rappresentare, invalidando la loro autorità. Sui confini si depositano ed accumulano tutte le contraddizioni più visibili dei relativi paesi, e proprio per questo risultano essere delle zone affascinanti che danno vita a forme di sincretismo, nonché di schizofrenia culturali alquanto peculiari.

E così, le attività umane che si svolgono lungo le aree di frontiera non solo arricchiscono il potenziale interculturale dei loro abitanti, ma contribuiscono a mettere in discussione le fondamenta teoriche stesse dello stato-nazione e dell’appartenenza esclusiva, un paradosso interessante e complesso che non ho ancora smesso di vivere e ricercare.

Giustina Selvelli

Scritto da Giustina Selvelli.

Pubblicato dalla nostra cara Project Manager Katerina.

Maggiori informazioni sui nostri servizi di Copywriting e Traduzione su .txt

--

--

.txt

.txt is a copywriting and translation agency working in more than 30 languages. We have a passion for words, multiculturalism and literature.