¡Que viva México! Il Messico della mia infanzia fra ricordi multicromatici, cajitas de muertos e nostalgia

Sarà vero che ciascuna cultura rappresenta un tesoro per l’intera umanità? Giustina lo dimostra in questo articolo, in cui ci racconta di come le vacanze estive della sua infanzia, trascorse in Messico, le abbiano lasciato un marchio indelebile: un gusto per i colori vivaci, una passione sfrenata per i mercatini tradizionali e un modo particolare di concepire la morte.
I miei ricordi messicani appaiono iscritti in maniera radicata nello spazio più sacro della memoria indelebile. Essi si intrecciano ad alcune esperienze straordinarie della mia infanzia, alla scoperta delle tonalità più vivide e colorate della vita, quelle che segnarono per sempre il mio immaginario esotico, le mie aspettative estetiche e cromatiche, e crearono il bisogno di instaurare un contatto diretto con l’umanità più sincera e con la natura più rigogliosa.
Nel corso di quasi ogni estate del decennio fra il 1989 e 1999, io e mio fratello avemmo la fortuna di viaggiare nel paese natale di nostra madre assieme a lei e a parte della “diaspora californiana” della famiglia. Arrivavamo nella capitale da Tijuana con un aereo della compagnia di bandiera Aeromexico, dopo aver superato il confine statunitense di San Diego, sulla costa dell’Oceano Pacifico.
Il momento dell’atterraggio a Città del Messico coincideva con un entusiasmo liberatorio e semi-spirituale: vedevo l’emozione traboccante di mia madre nel tornare nella sua terra e, in qualche modo, ero cosciente di starmi ricongiungendo ad una parte essenziale della mia esistenza, ad una dimensione parallela che aveva ben poco in comune con quella italiana.
La capitale del Messico si presentava ai miei occhi come un luogo magico e folle, segnato da contraddizioni laceranti e da un’energia primordiale di rinnovamento incessante. Era un universo fatto di scoperte quotidiane e spontanee, che andarono a sollecitare la mia fantasia e le mie impressioni più intense attraverso stimoli sensoriali inediti e duraturi.

Fu in Messico che scoprii per la prima volta il sapore della frutta tropicale — ricordo ancora il giorno in cui ingurgitai così tanti mango da procurarmi una terribile indigestione — fu lì che scoprii il temibile effetto del chile mexicano, che tenni fra le mani uno splendido colibrì, che mi ammalai ripetutamente dell’impietosa “venganza de Moctezuma”, altrove comunemente conosciuta come diarrea del viaggiatore. E, soprattutto, fu lì che mi trovai faccia a faccia con il terrore più grande, quello della morte, attraverso il contatto con la sua rappresentazione popolare onnipresente, che disturbava i miei sogni innocenti di bambina.
In uno dei mercati delle pulci chiamati “tianguis” — un termine di origine preispanica, nahuatl — mi imbattei infatti per la prima volta nelle cosiddette “cajitas de muertos”, delle specie di diorama artigianali sul tema della morte. La vista di questi “altarini” provocò immediatamente in me un senso di forte disagio, accompagnato da domande esistenziali non irrilevanti per la mia età. Non capivo quale fosse il significato di tale rappresentazione macabra, come mai a mia madre e alle sue sorelle quegli scheletrini, quei teschi, fatti di gesso, zucchero o carta, potessero piacere così tanto e risultare addirittura divertenti: a me non facevano affatto ridere, anzi, mi spaventavano e causavano un fastidio incontenibile!
Eppure, con il tempo l’immersione in quello strano mondo e la familiarizzazione con i suoi valori mi fornirono gli strumenti per poter superare le mie rimostranze infantili: fu così che imparai ad apprezzare al massimo grado tale aspetto della cultura messicana, il quale in maniera “inosabile” connette la morte al riso, esorcizzando in maniera collettiva uno dei tabù più grandi dell’umanità, e del mondo occidentale in particolare.
In tale contesto appresi inoltre ad amare i vibranti mercati di strada, non solo quelli della capitale ma anche quelli dei piccoli “pueblitos” pieni di luce che visitavamo durante la nostra permanenza nella verdissima Valle de Bravo, vicino al lago Avándaro, dove mio nonno possedeva una casa di villeggiatura, a un paio d’ore dalla grande città.
Mi aggiravo per i banchetti della piazza alla ricerca di oggetti preziosi su cui condensare la mia esperienza messicana, attraverso una forma di affettività materializzata: collane di perline colorate con figure di animali e bambini, piccole creazioni artistiche in vimini, anelli d’argento con simboli aztechi come la famosa Piedra del Sol, che avevo visto nel museo di Antropologia di Chapultepec… Avevo bisogno della concretezza di quei piccoli oggetti per poter esprimere al meglio il mio amore per quel paese, e per ricordarmi della sua esistenza una volta tornata a casa in Italia: per poter essere certa che quel mondo esistesse davvero, e non fosse solo il frutto della mia fantasia di bambina.
Con l’inizio del nuovo millennio, mia madre incominciò a mostrarsi sempre più restia ad intraprendere il solito viaggio estivo nella patria messicana, chiamando in causa l’accresciuta percezione di pericolo nel paese; tale attitudine si trasformò in una sorta di tabù, un allontanamento forzato, al quale anch’io, a differenza di mio fratello, finii per cedere.
Con il tempo e la distanza questo mio secondo paese diventò una sorta di “Mexico of the mind”, una “Imaginary homeland” come l’India di Salman Rushdie, e finì per nutrire la dolceamara nostalgia per qualcosa di inafferrabile, un passato vissuto ma anche idealizzato, un mondo che, inevitabilmente, non potrà mai più essere lo stesso.
L’interruzione del legame fisico con il Messico andò ad alimentare la fiamma della ricerca dell’appartenenza completa ad un luogo, che proiettai innumerevoli volte su orizzonti diversi, per supplire alla perdita del rapporto con quella fonte di vita, con quel baricentro viscerale di senso. Fu così che mi convinsi di poter trovare il Messico nei bazar variopinti dei Balcani e della Turchia, nei cangianti vestiti tradizionali bulgari, nelle trame accese e quasi psichedeliche dei tessuti popolari caucasici, nonché nei quartieri latinos di Los Angeles e San Francisco…
Diedi inoltre vita a forme personali di pratica nostalgica, iniziando ad integrare in una serie di rituali quotidiani i miei ricordi provenienti da quel paradiso primigenio e perduto. Così, ancora oggi porto addosso le mie collane di perline, i miei braccialetti ed anelli d’argento di Valle de Bravo, gli orecchini trovati al Tianguis, una sciarpa comprata da mio fratello in Chiapas…
E, a 18 anni da quando le comprai per l’ultima volta a Città del Messico, conservo gelosamente le mie cajitas de muertos, i cui scheletrini irridenti ormai non mi fanno più paura.
Scritto da Giustina Selvelli.
Pubblicato dalla nostra cara Project Manager Katerina.
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